APPROFONDIMENTO
N.03


02 FEBBRAIO 2021

Errata applicazione del massimale contributivo: cause e possibile gestione di un errore più frequente di quanto ci si possa aspettare

Quali sono le ragioni che sottendono la rivendicazione dell’ente previdenziale?

Conformemente alle previsioni di cui alla Legge n.335/1995 ed alle modifiche successivamente introdotte dalla Legge n. 214/2011, di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 201/2011, per i lavoratori dipendenti in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 la contribuzione previdenziale viene determinata in misura percentuale rispetto all’imponibile contributivo, senza la previsione di alcun massimale, contrariamente a quanto avviene per coloro che siano privi di anzianità alla medesima data, in riferimento ai quali il calcolo dei contributi IVS è determinato nei limiti di un massimale annualmente oggetto di rivalutazione (articolo 2, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335).

In buona sostanza incombe al Datore di Lavoro il compito di analizzare la situazione contributiva di ogni dipendente e quindi elaborare, in ragione della propria “storia previdenziale” la corretta contribuzione in termini mensili. In tal senso in genere e di buona prassi, viene richiesto al lavoratore subordinato all’atto dell’assunzione la compilazione di una specifica dichiarazione attestante il possesso o meno di anzianità contributiva alla data del 31 dicembre 1995.
Utile a tal fine ricordare come per “anzianità contributiva” debba correttamente farsi riferimento al complesso degli accrediti della contribuzione previdenziale obbligatoria - pur se afferenti e registrati in gestioni diverse - relativi a rapporti di lavoro privati o pubblici, dipendenti o autonomi (con versamenti di contributi, in tal caso, presso le rispettive casse di previdenza), in Italia o all’estero, in data precedente all’1 gennaio 1996. 

Allo scopo di gestire correttamente il rapporto di lavoro, sono parimenti da trattare i periodi di contribuzione figurativa, facoltativa, volontaria, nonché i riscatti ed i trasferimenti gratuiti ed onerosi anche accreditati presso un Ente anche successivamente alla costituzione del rapporto di lavoro: in sostanza il lavoratore assicurato deve “manutenere” la propria anagrafica previdenziale presso il sostituto previdenziale nella costanza del rapporto comunicando tempestivamente eventuali variazioni nella propria posizione pensionistica in modo che possa essere analizzata ed eventualmente modificato il versamento contributivo mensile.

Pertanto, in ragione della soggettiva situazione e storia contributiva del singolo lavoratore, il datore di lavoro sarà tenuto 

  • in ipotesi di anzianità contributiva al 31.12.1995, ad assumere quale base di calcolo non solo per la contribuzione minore ma anche per la contribuzione IVS, senza alcun limite di massimale, l’intero imponibile previdenziale;
  • in ipotesi di assenza di anzianità contributiva al 31.12.1995, ad assumere quale base di calcolo per la contribuzione IVS l’imponibile previdenziale nel rispetto del massimale contributivo annualmente applicabile, mentre la parte eccedente detto massimale sarà base di calcolo per le sole contribuzioni minori (es. maternità, Naspi, malattia etc.).

Principali cause dell’errata gestione del massimale contributivo

Pur se talvolta l’errata gestione amministrativa del massimale contributivo effettuata dal datore di lavoro è a questi esclusivamente imputabile stante 

  • la mancata profilazione del soggetto assicurato;

  • una gestione non coerente con la dichiarazione rilasciata dal lavoratore (è il caso in cui, ad esempio, il lavoratore abbia dichiarato di avere anzianità contributiva ante ’96 ma l’azienda erroneamente calcola la contribuzione IVS nei limiti del massimale contributivo),

nella maggior parte dei casi detta gestione errata è in realtà imputabile ad una errata dichiarazione rilasciata dal lavoratore ovvero ad un mancato “aggiornamento” da parte dello stesso di una dichiarazione precedentemente resa.

Ed infatti spesso (più per mancanza di conoscenza o per superficialità che per mala fede) il lavoratore - in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro - dichiara al Datore di Lavoro di non avere anzianità contributiva al 31.12.1995 quando, nei fatti così non è: non sono infatti rare le ipotesi in cui il lavoratore si dimentichi di aver svolto una qualche attività lavorativa soggetta a contribuzione in età giovanile (ad esempio durante gli studi universitari), ovvero non sia consapevole del fatto che ai fini dell’applicazione del massimale rilevi la contribuzione previdenziale versata anche a gestioni differenti da quella FPLD istituita presso l’INPS. L’ovvia conseguenza di tale errata dichiarazione è che la contribuzione IVS sia calcolata dal datore di lavoro nel limite del massimale quando, nei fatti, tale massimale non dovrebbe essere applicato, con conseguente diritto dell’ente previdenziale ad agire per il recupero della contribuzione omessa (in riferimento alla quale verranno altresì calcolate le sanzioni civili per omesso/tardivo versamento, nonché gli eventuali interessi moratori), diritto che si prescrive nell’ordinario termine quinquennale.

Sotto medesimo profilo, frequente è anche l’ipotesi in cui il lavoratore in un primo momento dichiari correttamente al datore di lavoro di non avere anzianità contributiva al 31.12.1995 ma, successivamente, vada a riscattare anni di laurea che si collocano in tutto od in parte in periodi antecedenti il 1° gennaio 1996. In tale ipotesi, il lavoratore dovrebbe correttamente informare il datore di lavoro dell’acquisizione, a seguito del riscatto, di anzianità assicurativa relativa a periodi antecedenti il 1° gennaio 1996 e, conseguentemente, di non essere ulteriormente soggetto all’applicazione del massimale ex art. 2, comma 18 della L. n. 335/95 a partire dal mese successivo a quello di presentazione della relativa domanda di riscatto. Ciò non sempre avviene nella prassi, con il medesimo risultato più sopra descritto: il datore di lavoro calcola la contribuzione IVS – erroneamente – nel limite del massimale con conseguente diritto dell’INPS ad agire per il recupero della contribuzione omessa.

Infine, merita altresì di essere menzionato il caso di lavoratore che, pur in possesso di anzianità contributiva al 31.12.1995, conformemente alla disciplina di cui all’articolo 1, comma 23, della legge n. 335/1995, abbia regolarmente esercitato la propria opzione per la trasformazione e la liquidazione della pensione secondo le regole contributive (facoltà riconosciuta, qui in sintesi, a coloro che i) non abbiano maturato 18 anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 1995 ii) possano vantare almeno 15 anni di contribuzione di cui almeno 5 nel sistema contributivo). A seguito dell’esercizio dell’opzione, pur in presenza di anzianità contributiva ante 1996, ai fini del calcolo della contribuzione IVS trova piena applicazione il massimale contributivo. Per qualsivoglia motivo il datore di lavoro non sia informato dal lavoratore dell’esercizio dell’opzione in esame, lo stesso continuerà a calcolare a contribuzione IVS senza applicazione del massimale con conseguente diritto delle parti (datore di lavoro e lavoratore) al recupero di quanto versato in eccesso, diritto che si prescrive nell’ordinario termine quinquennale.

Conseguenze dell’errata gestione amministrativa della contribuzione previdenziale

In caso di errata applicazione del massimale contributivo e, nello specifico, in ipotesi la contribuzione IVS sia erroneamente calcolata nei limiti del massimale contributivo, quali sono le conseguenze in capo al datore di lavoro ed al datore di lavoro? Chi dovrà assumersi la responsabilità – e conseguentemente sostenerne l’onere economico – della contribuzione omessa nonché delle sanzioni civili e degli eventuali interessi moratori?
La risposta a tale quesito non può prescindere dall’analisi delle disposizioni di cui agli articoli 2115 del codice civile e degli articoli 19 e 23 della Legge n.218/1952.
L’art. 2115, comma 2, del codice civile in tema di contribuzione stabilisce che “L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali.”
L’art. 19 della Legge n.218/1952, invece, che “Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce.”
La citata disposizione di legge ha la finalità di regolamentare e disciplinare l’ordinaria gestione dell’obbligazione contributiva gravante in capo al datore di lavoro ed al lavoratore: il primo è responsabile dell’effettivo pagamento dei contributi nei confronti dell’ente previdenziale, anche per la quota a carico del lavoratore, fermo restando che a questi può essere trattenuta la quota a suo carico dalla retribuzione cui il contributo si riferisce.
Il successivo articolo 23 della medesima norma di legge, invece, regolamenta e disciplina la differente ipotesi in cui il pagamento dei contributi sia omesso o ritardato, in tutto od in parte dal datore di lavoro: “Il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta è tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributo non versate tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, (…).”.

Le “leggi speciali” richiamate dall’art. 2115 codice civile, pertanto, a giustificazione dell’eventuale esercizio del diritto di rivalsa, nel caso di specie escludono nei fatti l’esercizio di tale facoltà; ed infatti il citato art. 23 della Legge n. 218/1952 – norma, appunto, speciale – sanziona il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o (come nel caso al nostro esame) vi provvede in misura inferiore, con l’esplicita esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore. Pertanto, in ragione delle esaminate norme di legge, in caso di errore nell’applicazione del massimale meramente imputabile al datore di lavoro (pensiamo al caso in cui, pur se il lavoratore abbia correttamente attestato il possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, il datore di lavoro abbia applicato il massimale contributivo) questi si dovrà fare carco dell’intera contribuzione omessa, anche per la quota che sarebbe stata a carico del lavoratore, nonché delle sanzioni civili e degli eventuali interessi moratori (seppure non specificatamente attinente il tema del massimale contributivo, si veda in tal senso in tal senso, a titolo esemplificativo, Cass. 15 luglio 2019 n.18897, Cass. 16 ottobre 2018 n. 25856, Cass. 25 maggio 2018 n.13164, Cass. 17 novembre 2016 n. 23426).

Ma a quale conclusione si potrebbe giungere qualora l’errata applicazione del massimale contributivo (da cui è conseguito un versamento di contribuzione IVS in misura inferiore a quella che nei fatti avrebbe dovuto essere calcolata) fosse esclusivamente imputabile al lavoratore, ad esempio perché questi ha reso una dichiarazione errata ovvero perché non ha informato il datore di lavoro del riscatto di periodi di laurea ante 1996?
Ad avviso di chi scrive, pur se tale ipotesi non è disciplinata dalla vigenti disposizioni di legge, poiché il minore versamento contributivo è da ascriversi totalmente/esclusivamente al lavoratore, appare in linea di massima legittima la facoltà del datore di lavoro di procedere alla trattenuta della quota di contribuzione che sarebbe stata a carico del lavoratore (ovviamente non della quota a carico azienda la quale sarebbe stata comunque a carico di questa) oltre che delle sanzioni civili e interessi moratori. Ovviamente, ogni caso specifico merita, tuttavia, specifica e puntuale analisi in quanto, ad ogni modo, potrebbero emergere circostanze tali da lenire l’eventuale errore del lavoratore (si pensi ad esempio al caso in cui il modello di dichiarazione sottoposto al lavoratore dal datore di lavoro, sia formulato in modo poco chiaro, controverso o – addirittura – errato). 

Doveroso in tal senso annotare il fatto che taluni Tribunali siano di avviso differente, riconducendo in ogni caso al Datore di Lavoro la responsabilità oggettiva del trattamento previdenziale. In questo senso il Tribunale di Milano si era pronunciato avverso il ricorso in accertamento di un istituto di credito nostro Cliente che era si era ritrovato debitore dell’Istituto per 25 anni di una parziale omissione contributiva a seguito di una dichiarazione previdenziale erroneamente compilata da un proprio dipendente; questi infatti aveva sostenuto (con vittoria in giudizio) come fosse di tal difficoltà interpretativa la norma in questione da non potersi esaurire la decodifica della propria posizione previdenziale in un semplice questionario multiple choice.

Ben lungi dal voler deridere la magistratura né un quadro aziendale la questione è semplice in diritto: la responsabilità della gestione previdenziale del lavoratore subordinato incombe, come prima detto, al Datore di Lavoro nelle proprie attribuzioni di sostituto d’imposta e la compilazione di una dichiarazione del lavoratore dipendente (o la mancata comunicazione delle operazioni sulla posizione pensionistica dello stesso dipendente) sono solo atti prodromici all’obbligazione sostanziale del versamento della contribuzione mensile.

Conclusioni

Pur con l’ovvia considerazione che l’INPS avrebbe ben potuto iniziare ad effettuare le verifiche inerenti alla corretta applicazione o meno del massimale contributivo da parte del datore di lavoro in ben altro momento, non ulteriormente aggravando la situazione di difficoltà in cui numerose aziende oggi versano in ragione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, non si può che concludere per la legittimità del diritto dell’ente ad agire per il recupero dei contributi eventualmente omessi.
Da tale comportamento, con ogni probabilità, si originerà nel prossimo periodo un intenso contenzioso tra datori di lavoro e dipendenti-ex dipendenti volto a scaricare sull’altra parte le conseguenze economiche dell’errore commesso.
Consapevole di ciò, con messaggio 31 dicembre 2020, n. 5062 al fine di consentire ai datori di lavoro “di ricostruire con i lavoratori i passaggi interni che hanno determinato l'esposizione degli imponibili come eccedenza massimale”, ha accordato un termine di adempimento pari a 90 giorni decorrenti dalla data di notifica della diffida, in luogo del differente termine di 30 giorni riportato nelle diffide trasmesse.

E pensare che per ovviare a tali problematiche, senza esporre le parti al rischio di sanzioni civili, sarebbe bastato e tuttora basterebbe che l’ente previdenziale mettesse a disposizione del datore, in fase di instaurazione di un rapporto di lavoro, una utility che consenta di verificare, il regime contributivo applicabile, nel pieno rispetto della privacy dei lavoratori.
Ci si chiede infatti se sia poi astruso il seguente sillogismo:

  • se è ben noto a tutti come le “moderne” comunicazioni di istaurazione del rapporto di lavoro – a cui il DdL è tenuto addirittura in tempo precedente all’effettivo inizio della prestazione lavorativa – siano a disposizione di tutti gli Istituti e gli Enti obbligatori come appunto INPS ed INAIL,
  • se allo stesso modo è altrettanto noto che l’INPS abbia fornito al Datore di Lavoro uno strumento di comunicazione - peraltro rigorosamente esclusivo e quindi dotato di tutti i requisiti che possano superare le prescrizioni relative al Diritto alla Privacy – definito “cassetto previdenziale” che è nella sostanza un portale verso le informazioni gestite dall’Istituto per gli assicurati,
  • parrebbe correlatamente semplice poter dotare il Datore di Lavoro di informazioni che possano azzerare il rischio di errore nell’elaborazione della contribuzione per i propri lavoratori dipendenti.

Ci contiamo per il futuro…

Si rimane a disposizione per qualsiasi eventuale ulteriore confronto si dovesse ritenere opportuno






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